sabato 2 agosto 2008

La guerra degli spot: "Celeb" vs. "Low road"

Il ritorno di Obama dal tour estero è stato seguito da un durissimo attacco da parte di John McCain, che ha diffuso pochi giorni fa lo spot televisivo "Celeb", in cui si intende mettere alla berlina il personaggio mediatico di Obama, paragonato alle sue proposte politiche.
La nuova linea editoriale, se così si può dire, della campagna del Repubblicano - guidata ora da quello Steve Schmidt che nel 2004 ridicolizzò John Kerry - consiste nel rappresentare Obama come una celebrità dietro cui però non c'è nè esperienza nè proposte politiche di rilievo.
Nello spot, Obama viene paragonato a Britney Spears e Paris Hilton e definito la "più grande celebrità del mondo" ma "è pronto per la leadership?". Seguono accuse al Democratico di voler aumentare le tasse e di non risolvere il problema della dipendenza dal petrolio estero.
Piccola curiosità: gli Hilton sono stati generosi finanziatori della campagna di McCain, e pare che non abbiano preso affatto bene lo spot.


La risposta della campagna di Obama non si è fatta attendere. Lo spot "Low Road" esplicita la linea di condotta messa a punto da Obama e Plouffe, e già provata nelle recenti uscite del Senatore, ovvero quella di accusare McCain di non avere proposte concrete e di cercare per questo di minimizzare quelle del rivale. Linea editoriale sintetizzabile nel commento di Obama allo spot "Celeb": "E' questo il meglio che sapete fare?".
Nello spot si accusa McCain di praticare la vecchia politica fallimentare e di usare "mezzucci" (low road), si citano articoli di giornali in cui gli attacchi di McCain sono definiti falsi e privi di fondamento, si spiegano sommariamente le proposte di Obama su energia ed economia e come ciliegina sulla torta il Repubblicano viene mostrato assieme a George W. Bush

venerdì 1 agosto 2008

Dopo il 2000, McCain ha imparato a gestire le leve del potere

di David D. Kirkpatrick (New York Times)

Il Senatore John McCain era tutto tranne che un nemico giurato di Trent Lott, l’ex leader Repubblicano.
Lott ha annullato tutti gli obiettivi legislativi a cui McCain teneva, e peggio ancora, McCain pensava che fosse stato Lott a mettere in giro, durante le primarie del 2000, voci tendenziose riguardo la sua sanità mentale, che favorirono la nomination di George W. Bush.
Ma quando nel 2002 Bush ha contribuito all’allontanamento di Lott dalla leadership del partito, a seguito di un commento razzista, McCain si è battuto in difesa di Lott, chiedendo ai colleghi di partito di sostenerlo. Lott disse che non avrebbe mai dimenticato quell’impegno. Quell’alleanza fu solo il primo passo della rinascita politica di McCain.

Durante l’amministrazione Bush, McCain è diventato un maestro della triangolazione politica – unendosi a Lott contro il Presidente o i nuovi leader Repubblicani, con i Democratici contro i Repubblicani, e con il Presidente contro i Democratici – diventando forse il membro più influente del Congresso.
“Non riesco a pensare a molti senatori più influenti” ammette Tom Daschle, ex leader della maggioranza Democratica in Senato.

Il percorso politico di McCain fa infuriare entrambi gli schieramenti: sulla guerra in Iraq ha criticato la Casa Bianca per la gestione del conflitto e i Democratici per la loro opposizione. Sull’immigrazione, si è unito ai Democratici e alla Casa Bianca contro il suo stesso partito. E ha capeggiato una serie di proposte Democratiche come quella contro la riforma fiscale, il trivellamento in Alaska, il tetto all’inquinamento e l’uso della tortura.

McCain si è guadagnato il soprannome di “Maverick” circa un decennio fa. Quando fu eletto per la prima volta al Senato nel 1986, dopo due mandati alla Camera, era nella maggioranza del partito e correva per un posto di leader.
Ma la popolarità non durò. I colleghi lo ritenevano troppo brusco e aggressivo, e lui prese l’abitudine di denunciare i loro privilegi speciali.
Ma il suo eroismo da prigioniero di guerra gli ha conferito un prestigio speciale, che lui ha usato per “coltivare” giovani leve del Senato, sia tra i Repubblicani che tra i Democratici. Prima della campagna di quest’anno, McCain era solito cenare a Washington due volte al mese – preferisce il cibo vietnamita, il film “Borat” e fare battute sui colleghi – con un ristretto gruppo di Repubblicani tra cui Lindsey Graham e l’ex rivale (per breve tempo) nelle primarie di quest’anno Fred Thompson.
I suoi amici dicono che l’ideologia di McCain è sempre stata ad hoc – governo snello e conservatore ma aperto all’espansione del potere governativo in casi eccezionali. Ma a parte varie campagne per riforme fiscali, fino al 1998 McCain era un reaganiano di ferro, poi ci fu il primo vero strappo con il partito, quando venne incaricato di negoziare una proposta per dirimere le azioni legali contro i produttori di tabacco.
McCain accusò i suoi colleghi Repubblicani, in particolar modo i conservatori, di giocare sulla pelle dei bambini. I Democratici gli tributarono una standing ovation.

Dopo l’elezione di Bush, McCain dichiarò la propria indipendenza da entrambi i partiti e tornò al lavoro pieno di motivazioni per essersi trovato per la prima volta ad affrontare questioni come il riscaldamento globale o i costi delle cure sanitarie.
Nel corso della campagna elettorale del 2000, McCain aveva proposto una riforma del finanziamento ai partiti, aveva attaccato i tagli delle tasse sui redditi più alti, le corporazioni e i cristiani conservatori. Tornando in Senato, McCain si chiese se si fosse alienato i consensi della base. John Zogby, sondaggista di fiducia del Senatore, gli spiegò che quelle primarie lo avevano reso più gradito a Democratici e Indipendenti che ai Repubblicani, ma che era comunque uno dei politici più popolari del paese.
McCain però aveva bisogno di un piccolo incoraggiamento: l’asprezza di quelle primarie lo avevano allontanato da partito e ora sentiva di poter essere se stesso.
Per tutta la sua carriera aveva mantenuto le distanze da Ted Kennedy, ma dopo il 2000 andò da lui e gli disse di voler lavorare con lui, e con John Edwards, su una riforma sanitaria.
In breve tempo divenne un collaboratore dei Democratici su così tanti argomenti che era sua abitudine fermarsi all’ufficio di Tom Daschle per essere aggiornato sulle novità.
Quando Daschle e Kennedy gli proposero di passare nel loro partito, McCain mise in giro la voce per saggiare la reazione, e la sua considerazione fra i leader Repubblicani tornò a crescere. Ci fu il riavvicinamento con Lott, che lo appoggiò in alcune iniziative contro l’amministrazione Bush e l’allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. E in certe occasioni McCain usava la sua influenza per spingere gli amici Democratici a sostenere le iniziative della Casa Bianca osteggiate dai Repubblicani.
Nel 2004 però i Democratici lo hanno accusato di ipocrisia per aver appoggiato la rielezione di Bush. Nel 2005 e 2006 si è fatto di nuovo benvolere per il suo impegno contro la tortura, concretizzatosi in riunioni infuocate con Dick Cheney, finite ad urla secondo i bene informati. “Disse che negoziare sulla tortura con Cheney era come negoziare una riforma bancaria con Bonnie e Clyde” ha raccontato Weaver, un suo consigliere dell’epoca.

Copyright 2008 The New York Times Company

giovedì 31 luglio 2008

Sondaggi: aggiornamento flash su tre stati chiave


Oggi la Quinnipiac University ha diffuso i risultati di un sondaggio condotto tra il 23 e il 29 luglio su 3.794 persone in tre stati chiave

Florida:
Obama: 46 McCain: 44


Ohio:
Obama: 46 McCain: 44


Pennsylvania:
Obama: 49 McCain: 42

Margine di errore: 2,7-2.8%

La scelta del vice: la lista è sempre più corta


Il Wall Street Journal fa il punto della situazione sulla selezione dei candidati alla vicepresidenza.
Prima di partire per il suo tour estero, Obama ha raccolto informazioni e ristretto il campo. La sua lista comprende ora cinque colleghi al Senato – Joseph Biden, Evan Bayh, Chris Dodd, Hillary Clinton e Jack Reed – e due governatori, Tim Kaine della Virginia e Kathleen Sebelius del Kansas, anche se potrebbe decidere di scegliere al di fuori di questi nomi, puntando ad esempio sul Repubblicano Hagel.

Sul fronte Repubblicano, anche John McCain sta accorciando la lista, e il numero di scelte sarebbe più o meno lo stesso. Nella lista sarebbero l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney, il Governatore del Minnesota Tim Pawlenty, con cui ha una solida amicizia, e l’ex deputato dell’Ohio Rob Portman. Il Repubblicano sta anche valutando il Senatore John Tune, il Governatore della Florida Charlie Crist e l’ex amministratore delegato della Hewlett and Packard Carly Fiorina. Il giornale ricorda che però spesso i nomi nella lista servono a blandire gli elettori – sarebbe il caso della Clinton – e le scelte finali a volte non rientrano nella “short list”. È il caso di George W. Bush con Dick Cheney (che era il capo del suo team di ricerca del vice) e di suo padre con Dan Quayle.

La settimana scorsa il team di ricerca di Obama, capeggiato da Caroline Kennedy e Eric Holder, hanno concluso la fase di raccolta di informazioni. Per quando riguarda il momento della scelta, c’è l’incognita delle Olimpiadi: l’annuncio potrebbe arrivare prima o subito dopo, a ridosso delle convention, difficilmente avverrà durante i Giochi.
Obama deve scegliere tra esperienza e cambiamento: se vuole al suo fianco un politico di lungo corso si orienterà su uno dei senatori, se invece vorrà un volto nuovo sceglierà uno dei due Governatori.
Ci sono però anche considerazioni di tipo geografico: Kaine e Bayh potrebbero consentire a Obama di vincere in Virginia o Indiana, ovvero uno stato in bilico e uno solitamente Repubblicano. Kaine in particolare corrisponde al profilo ideale, sia perché è un volto nuovo sia perché ha appoggiato Obama sin dall’inizio. D’altronde Bayh potrebbe servire ad attirare gli elettori della Clinton, di cui era un sostenitore.
Obama ha lanciato spesso messaggi di grande affetto per la Sebelius, ma i suoi consiglieri ammettono che sarà quasi impossibile scegliere una donna che non sia la Clinton.
Il Senatore Reed del Rhode Island è un veterano, e potrebbe rappresentare una risposta a McCain, ma ha fatto sapere di non essere interessato al posto.
Joe Biden e Chris Dodd sono esperti in politica estera. Dodd però recentemente è stato coinvolto in una vicenda riguardante un mutuo ricevuto a tassi vantaggiosi: anche se non ha fatto nulla di illegale, la cosa potrebbe diventare motivo di attacchi. Biden invece, a detta dei Democratici, è l’unico candidato uscito dalle primarie con un’immagine migliore di quando ci era entrato.

Se McCain volesse ricompensare chi l’ha aiutato a fare un bel passo in avanti verso la nomination, dovrebbe scegliere il Governatore della Florida Charlie Crist (che però è single, anche se recentemente ha annunciato il suo fidanzamento).
Nonostante le ostilità nelle primarie, McCain e Mitt Romney ora sono grandi alleati. Romney sarebbe importante ora che l’economia è diventata l’argomento principale della campagna, e in più è un asso nella raccolta fondi. Romney ha la “raccomandazione” di Bush senior, e McCain recentemente ha detto “Mitt si è impegnato per me più di quanto abbia fatto per se stesso”.
D’altra parte, se Romney è l’ideale dal punto di vista economico e strategico, McCain potrebbe volere al suo fianco qualcuno con cui abbia una forte amicizia. In questo senso, la sua scelta principale è Tim Pawlenty.
Un altro che potrebbe aiutare sia dal punto di vista geografico che in materia economica è Rob Portman dell’Ohio, ex responsabile del Bilancio nell’amministrazione Bush. Thune è piuttosto giovane e piace ai conservatori. Carly Fiorina è una scelta meno probabile, ma si è impegnata moltissimo in questa campagna, specialmente con le elettrici.
È difficile che McCain esca da questa lista, ma se lo facesse si orienterebbe sul giovanissimo (37 anni) Governatore della Louisiana Bobby Jindal o, ancora più improbabile, sulla “pasionaria” Governatrice dell’Alaska Sarah Palin, giovane madre di cinque figli. È comunque molto probabile che McCain annunci la sua scelta prima di Obama.

Fonte: Wall Street Journal

mercoledì 30 luglio 2008

Sondaggi: McCain in testa, ma anche no

Emerge un quadro contraddittorio e di grande incertezza dagli ultimi sondaggi di luglio, rilasciati nei passati due giorni e svolti mentre si era nel pieno del tour internazionale di Obama.
Il dato più clamoroso è senz'altro quello che emerge dal sondaggio Gallup/USA Today condotto tra il 25 e il 27 luglio: per la prima volta dalla fine delle primarie - e per la prima volta in assoluto con questi numeri - John McCain è in testa, e non di poco.
Secondo la ricerca, il Repubblicano ha guadagnato ben 10 punti dall'ultimo sondaggio e conduce per 49 a 45 su Obama. Un sondaggio non fa primavera, ma unito al calo già subito da Obama nell'ultimo poll di Newsweek, si ouò dire che la spinta data al Democratico dal conseguimento della nomination a giugno si è ormai esaurita.
Per la precisione, va anche detto che il sondaggio di Gallup è stato condotto su un campione diverso da quello degli elettori registrati, ovverosia su un sottocampione di elettori che hanno già deciso di andare a votare a novembre. Il campione è piuttosto ristretto, 791 persone, e come si vede cala il numero di indecisi. A quanto pare coloro che prima erano indecisi oggi propendono per McCain, ma i sondaggisti fanno notare che questi elettori stanno iniziando solo ora a raccogliere informazioni su cui basare il proprio voto a novembre, e sono quindi ancora soggetti a cambiamenti. La massiccia copertura mediatica del viaggio di Obama può avere inoltre rappresentato un boomerang, causando un effetto di saturazione nel pubblico americano.
Lo stesso sondaggio Gallup è stato comunque condotto anche sul campione primario di elettori registrati (900 persone) e in questo campione Obama è ancora in vantaggio, sia pure di poco: 47 a 44.

Di tutt'altro avviso Research 2000, che ha condotto un sondaggio nello stesso periodo di Gallup, su un campione di elettori LV (cioè che probabilmente andranno a votare) composto da 1100 persone, e tenendo in considerazione anche i candidati Nader e Barr. In questo sondaggio Obama si attesta al 51%, McCain al 39%, Barr al 3% e Nader al 2%. Obama è in testa in tutte le zone del paese tranne che nel Sud, e i sondaggisti fanno notare che in generale Obama ha dai due ai quattro punti in più rispetto a quanto aveva John Kerry quattro anni fa in questo stesso periodo, ovvero quando i sondaggi lo davano in testa.
In ogni caso, gli esperti sono d'accordo nel dire che il mese di agosto presenterà percentuali piuttosto "ballerine", e che solo dopo le convention i numeri cominceranno ad attestarsi su cifre vicine a quelle definitive.

martedì 29 luglio 2008

Nei posti giusti al momento giusto

di Jonathan Martini (Politico)

Il tanto atteso e pubblicizzato viaggio all’estero di Obama, fatto soprattutto per superare la percezione che non è in grado di fare il comandante in capo, è arrivato nel momento giusto perché i recenti eventi in Iraq, Iran e Afghanistan si sono inseriti perfettamente nel suo messaggio.

L’Afghanistan, che per Obama deve essere il fronte centrale della lotta al terrorismo, è tornato sulle prime pagine dei giornali per l’uccisione di nove militari USA, la scorsa settimana, ad opera di terroristi, a conferma della rinnovata pericolosità dei Talebani.

Poi l’amministrazione Bush ha spedito il sottosegretario di Stato per gli Affari Politici William J. Burns, il terzo più alto rappresentante del Dipartimento di Stato, in Svizzera per incontrare ufficiali iraniani e rappresentati degli altri paesi e discutere delle ambizioni nucleari di Teheran. Dopo essere stato attaccato per mesi dai Repubblicani per la sua volontà di sedere allo stesso tavolo incondizionatamente con l’Iran, la posizione di Obama è stata di fatto avallata dallo stesso Dipartimento di Stato.
“Sono felice che l’amministrazione Bush abbia cambiato idea e inviato dei negoziatori per parlare direttamente” ha commentato Obama.

Ma è in Iraq che Obama ha ricevuto il regalo più gradito.
In primo luogo, la Casa Bianca e il premier Iracheno al-Maliki hanno annunciato insieme l’intenzione di fissare un “orizzonte temporale” per il ritiro statunitense dall’Iraq, un’ipotesi finora sempre rifiutata da Bush.
Sabato 19, il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato un’intervista in cui al-Maliki, alla richiesta di stabilire una data per il ritiro, ha risposto “Il prima possibile, per quel che ci riguarda. Il candidato alla presidenza Barack Obama ha parlato di 16 mesi. Ci sembra il giusto tempo, con la possibilità di qualche piccolo cambiamento”
Successivamente il portavoce di al-Maliki ha specificato che ogni ritiro sarà fatto di concerto con il governo USA, e ha aggiunto che il premier era stato “frainteso”, pur senza specificare in cosa.
Al-Maliki, comunque, aveva già reso chiara la sua posizione. Secondo la Associated Press, il premier avrebbe usato la minaccia delle prossime elezioni americane per forzare la mano a Bush e arrivare ad un accordo sui tempi del ritiro.
Oltre che su Bush, al-Maliki ha messo pressione anche a McCain, la cui posizione favorevole ad una permanenza indeterminata americana in Iraq non incontra più il favore del governo locale.
I Democratici hanno subito colto la palla al balzo ricordando che nel 2004 il Senatore dell’Arizona aveva dichiarato di voler rispettare la volontà del governo iracheno.
“Il tempo stabilito per il ritiro non è importante quanto vincere con onore, cosa che evidentemente non interessa a Barack Obama “ ha detto il consigliere di McCain Randy Scheunemann “la verità fondamentale rimane che il Senatore McCain aveva ragione sull’aumento delle truppe, e il Senatore Obama torto. Oggi non saremmo nelle condizioni di discutere un ritiro se avesse prevalso la visione di Obama”.

© 2008 Capitol News Company LLC

lunedì 28 luglio 2008

E intanto McCain incontra il Dalai Lama

Ad Aspen in Colorado, uno degli stati in cui viene dato in rimonta dai sondaggi, John McCain ha incontrato il Dalai Lama, in USA per una serie di conferenze.
McCain ha parlato della situazione in Tibet, chiedendo alla Cina di liberare i prigionieri politici e affermando che le Olimpiadi di Pechino saranno un'opportunità irripetibile per il governo cinese di dimostrare rispetto per i diritti umani.
Il Dalai Lama ha ringraziato McCain per il suo impegno per la causa ma ha tenuto a precisare che questo incontro non rappresenta un endorsement.
McCain, che per tutta la settimana ha girato negli stati chiave parlando a grandi folle, è tornato sulla polemica con Obama riguardo il ritiro dall'Iraq, criticando la posizione del Democratico e definendola "l'audacità senza speranza" - riprendendo il titolo della biografia di Obama "The audacity of hope" - ribadendo la correttezza della sua posizione riguardo l'aumento delle truppe in Iraq, che ha dato buoni frutti.

Fonti vicine a McCain assicurano, dopo il falso allarme di qualche giorno fa, che il Senatore annuncerà il suo candidato alla vicepresidenza nei giorni successivi al ritorno in USA di Obama e precedenti all'inizio delle Olimpiadi (l'8 agosto), ovvero in una data che gli assicurerebbe una buona copertura mediatica. Altri però sostengono che McCain vorrebbe prendersi ancora altro tempo per decidere.

Il tour estero di Obama: Francia e Inghilterra

Ultime tappe del tour estero di Obama, che dopo il bagno di folla di Berlino ha dedicato gli ultimi due giorni ad incontri più politici e meno glamour.
A Parigi Obama è stato ricevuto con tutti gli onori dal presidente Nicolas Sarkozy, che già nei giorni precedenti si era lasciato andare a dichiarazioni entusiastiche (“Obama è mio amico, mi riconosco in lui”, e ancora “Nonostante quello che mi dicevano i miei consiglieri, ho sempre creduto nella nomination di Obama”). All’Eliseo, Obama ha partecipato ad una conferenza stampa congiunta con il presidente francese, onore che di solito viene concesso solo ai capi di stato. Obama e Sarkozy hanno parlato di Iran – Obama ha anche rivolto un appello alle autorità iraniane affinchè si affrettino subito a dialogare – e di Afghanistan. Sarkozy e Obama si sono rammaricati dei dissidi tra europei e americani negli ultimi anni e il presidente francese (che giusto un anno fa di questi tempi era in vacanza con George W. Bush) ha detto che se Obama verrà eletto i rapporti tra Usa ed Europa saranno di nuovo all’insegna della concordia.

Nel tardo pomeriggio di venerdì, Obama è partito alla volta di Londra. Qui c’è stato un piccolo incidente diplomatico, perché il Democratico ha voluto incontrare l’ex premier Tony Blair prima dell’attuale capo del governo Gordon Brown. È chiaro il motivo, politico e mediatico: Blair è a tutt’oggi molto più popolare del suo successore, il cui gradimento è in caduta libera, ed è stato il più fedele alleato di Bush, ma Gordon Brown non l’ha presa bene. Dopo l’incontro con Blair, molto cordiale, Obama è andato a Downing Street e non ha trovato il premier ad accoglierlo sulla porta (ma va detto che non l’aveva fatto neppure con McCain a marzo). Dopo un breve incontro, i due si sono fatti fotografare solo al momento del congedo. Parlando ai giornalisti inglesi, Obama ha difeso la sua decisione di intraprendere questo viaggio all'estero, ribadendo che molti problemi interni agli USA non possono essere risolti senza partner esterni. In seguito Obama ha avuto un faccia a faccia anche con il giovane leader dell’opposizione, il conservatore David Cameron, che i sondaggi danno come probabile prossimo premier. Nel corso di questo incontro è avvenuto un fatto curioso: alcuni microfoni rimasti aperti hanno colto un brano di conversazione tra i due. Cameron ha chiesto a Obama se ha trovato tempo per andare in vacanza, e il Senatore si è lamentato del poco tempo a disposizione per staccare la spina. Obama ha anche detto di volersi prendere una settimana di pausa ad agosto e ha riferito a Cameron "Una persona che ha lavorato alla Casa Bianca - non i Clinton ma qualcuno vicino a loro - mi ha raccomandato di trovare dei momenti nel corso della giornata in cui riposare e non fare altro che pensare. E' l'unico modo per non fare errori e non perdere di vista il quadro generale".

domenica 27 luglio 2008

Le elezioni che hanno fatto storia: 1988

Le elezioni del 1988 segnarono la fine dell’era reaganiana, che aveva portato ad un exploit quasi senza precedenti dell’economia statunitense e soprattutto alla fine della Guerra Fredda. La popolarità di Reagan permise al suo vice George Bush di partire favorito, ma il clima – dopo le elezioni di medio termine del 1986 – sembrava essersi rivoltato a favore dei Democratici.

In casa Democratica, dopo la debacle di Walter Mondale quattro anni prima, il candidato uscito sconfitto da quelle primarie, Gary Hart, sembrava il favorito. In alternativa, i leader del partito puntavano anche sul Governatore di New York Mario Cuomo, uno degli emergenti più apprezzati, che aveva conquistato la ribalta con il discorso di apertura alla convention del 1984. Ma le cose non andarono come previsto: Cuomo decise di non candidarsi e ad Hart andò peggio. Un anno prima dell’inizio delle primarie, alcuni giornali iniziarono a parlare di una relazione extraconiugale di Hart, che lui negò decisamente fin quando il Miami Herald non pubblicò le foto che provavano la sua relazione con Donna Rice. A maggio del 1987, Hart si ritirò. A dicembre accennò a un suo possibile rientro in corsa, ma ormai le sue chance erano a zero. Anche Ted Kennedy, come Cuomo, decise di non candidarsi. Il ruolo di favorito passò allora a Joe Biden, giovane e moderato. Ma anche la sua campagna si concluse bruscamente quando venne accusato di aver copiato un discorso dell’allora leader laburista inglese Neil Kinnock. In realtà Biden aveva sempre attribuito le sue citazioni alla corretta fonte, tranne l’unica volta in cui un suo comizio fu ripreso dalle telecamere.


A questo punto, i nomi rimasti in ballo erano quasi tutti di outsider: il Governatore del Massachusetts Michael Dukakis, l’attivista dei diritti civili Jesse Jackson, il Senatore del Tennessee Al Gore e il leader di maggioranza alla Camera Dick Gephardt del Missouri.
Gephardt iniziò molto bene, vincendo in Iowa e arrivando secondo in New Hamsphire, ma poi cadde vittima del tiro incrociato di Dukakis e Gore, che sponsorizzarono una campagna di stampa molto negativa contro di lui. Nel Super Tuesday, Dukakis vinse sei primarie, mentre Gore e Jackson si danneggiarono a vicenda dividendosi gli stati del Sud, cinque a testa. Il distacco tra i tre era sottile, ma mentre Gore e Jackson non riuscirono a raccogliere consensi al di fuori del loro bacino abituale, Dukakis riuscì ad attrarre consensi da tutte le parti della nazione e divenne il front runner. Gore, Gephardt e gli altri candidati si ritirarono dopo il Super Tuesday, mentre Jackson decise di rimanere in corsa.
La convention Democratica si aprì con un discorso di Bill Clinton, talmente lungo che i delegati iniziarono a fischiare pur di farlo finire. Dukakis ottenne la nomination al primo voto, ma Jackson riuscì comunque a raccogliere oltre 1200 delegati. Molti ritenevano che Dukakis dovesse sceglierlo come vice, ma il nominato preferì orientarsi su Lloyd Bentsen, Senatore del Texas, riproponendo quindi un ticket Massachusetts-Texas a 28 anni di distanza da Kennedy-Johnson.

Tra i Repubblicani, Bush vinse la nomination superando senza problemi Bob Dole e Jack Kemp (nonostante una debacle iniziale nei caucus dell’Iowa), e si presentò con una piattaforma più moderata di quella di Reagan. Alla convention presentò come vice il semisconosciuto Dan Quayle.


Alle elezioni di novembre si candidò, tra gli altri, anche Ron Paul per il Libertarian Party.
Subito dopo le convention, i sondaggi davano Dukakis con 16 punti di vantaggio su Bush, che iniziò perciò una campagna elettorale tesa a dipingere il Democratico come un liberal di estrema sinistra ignorante in materia militare. Dukakis provò a rispondere facendosi fotografare a bordo di un carro armato, ma la mossa si rivelò un boomerang, e le sue foto in cui provava goffamente a mostrarsi marziale divennero un’arma privilegiata della campagna di Bush.
Dukakis provò ad attaccare Bush a proposito di recenti scandali dell’amministrazione Reagan e per la scelta di un vice troppo giovane e inesperto. Quayle si rese protagonista di numerose gaffe: durante l’unico dibattito vice presidenziale, provò a minimizzare la sua inesperienza paragonandosi a John Kennedy e dicendo di avere più esperienza di quella che aveva Kennedy quando si candidò. Al che Bentsen replicò con una frase entrata negli annali “Senatore, ho servito con Jack Kennedy. Conoscevo Jack Kennedy. Jack Kennedy era mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy”. Quayle replicò che quella risposta era inappropriata, e Bentsen rincarò la dose “E’ lei che ha fatto il paragone, e io sono quello che lo conosceva bene. E francamente penso che siete così distanti negli obiettivi scelti per il nostro paese che non credo che il paragone abbia senso”.
Ma nonostante questo episodio, Bush-Quayle avevano ormai saldamente superato Dukakis nei sondaggi. Dukakis soffrì un ulteriore affondo quando Willie Horton, un assassino messo in libertà provvisoria all’interno di un programma di riabilitazione sponsorizzato proprio dal Governatore del Massachusets, commise un nuovo omicidio con stupro. La campagna Repubblicana sfruttò questo episodio, e creò ad arte false voci riguardo una presunta malattia mentale di Dukakis.
Dukakis se la cavò bene nel primo dibattito con Bush, ma il secondo mise la parola fine alle sue aspirazioni. Il giornalista Bernard Shaw gli chiese se avrebbe sostenuto la pena di morte nel caso in cui sua moglie fosse stata violentata e uccisa, e Dukakis rispose citando dati sull’inefficacia della pena di morte. Tutti furono d’accordo nel dire che una tale domanda era scorretta e irrilevante, ma anche che la risposta di Dukakis era stata troppo asettica e inefficace.

Le elezioni si tennero l’8 novembre e si conclusero con una netta vittoria di Bush sia nel voto popolare che per Grandi Elettori. Il Repubblicano infatti conquistò 40 stati e il 53,4% dei consensi, con 426 Grandi Elettori. Dukakis vinse in 10 stati più D.C., con 111 Grandi Elettori e il 45,6% di consensi.
Per la terza volta consecutiva, i Repubblicani conquistarono la Casa Bianca con ampio margine, ma nonostante la sconfitta, i Democratici rafforzarono la loro leadership nei due rami del Congresso, preannunciando vita difficile al nuovo Presidente.