sabato 12 aprile 2008

Cosa deve fare la Clinton per vincere "davvero" in Pennsylvania

di Mark Halperin (TIME)



  1. Deve vincere nel voto popolare con uno scarto superiore al 10,5%, altrimenti i media diranno che non ha rispettato le aspettative (e il margine dell'Ohio).

  2. Deve mettere in difficoltà la leadership di Obama nel voto popolare con una grande quantità di voti ed una altissima affluenza.

  3. Deve conquistare abbastanza delegati da poter riaprire la partita con Obama (altrimenti sentirete lo staff di Obama sbadigliare rumorosamente).

  4. Deve dominare il voto degli operai bianchi (anche in questo caso, superando i margini dell'Ohio) per impressionare i superdelegati - oppure Obama potrà dire che le polemiche su Reverendo Wright non lo hanno indebolito.*

  5. Deve fare in modo che la sua vittoria sia basata su un forte sostegno per le politiche economiche (e gli wxit poll devono confermarlo).

  6. Deve raccogliere qualche superdelegato immediatamente dopo.

  7. Deve fare in modo che i media (e i superdelegati) comincino a credere al suo mantra "Io posso vincere nei grandi stati e lui no".

  8. Deve cavalcare l'onda del successo in Indiana e North Carolina, e nei sondaggi.

  9. Deve puntare su Internet e sulle raccolte fondi vecchio stile.

  10. Deve dare ai suoi sostenitori qualcosa di sostanzioso da offrire ai media, ai donatori e agli elettori - in modo tale che possano empaticamente fare campagna, preparare strategie e tranquillizzarsi, invece che difenderla ansiosamente, recriminare e negare (e, occasionalmente, predire una vittoria di Obama).

  11. Deve dare a Bill Clinton qualcosa di costruttivo su cui fare campagna - così da impiegarlo nel modo migliore, invece che fargli puntare il dito per lanciare accuse rabbiose.

  12. Deve sperare che tutto funzioni in suo favore sul versante delle notizie, in modo che i media non siano distratti e la sua vittoria diventi la storia della settimana.

  13. Deve sperare che i risultati influenzino i commentatori / i sondaggi / gli staff / i temi dei dibattiti / le conferenze, in modo sufficiente da scuotere la sicurezza di Obama, e da fargli guardare con più preoccupazione a luglio, e con meno fiducia a novembre.

  14. Deve cambiare i suoi discorsi, specialmente quelli dopo una vittoria per creare fiducia nel trionfo finale, piuttosto che per ribadire che è ancora in piedi.

  15. Deve sperare che tutte queste cose mettano fine agli appelli perchè si ritiri, da parte di Democratici e giornalisti.




* Questo è il punto più importante

Sondaggi: la Clinton dietro Obama ma davanti a McCain

E' uno scenario per certi versi paradossale quello tracciato dall'ultimo sondaggio sulle elezioni americane proposto da Associated Press e Ipsos. Secondo questa ricerca, Hillary Clinton sarebbe ancora alle spalle di Obama per quanto riguarda il gradimento tra i Democratici, ma è piazzata meglio del collega di partito quando si tratta di affrontare John McCain.
Ecco i dati nel dettaglio:
per quanto concerne la nomination Democratica, Obama raccoglie il 46% del gradimento contro il 43% della Clinton. Le percentuali sono le stesse del precedente sondaggio AP/Ipsos risalente a febbraio.
Per quanto riguarda le presidenziali, in un'ipotetica sfida Clinton-McCain, la senatrice di New York sarebbe al 45%, con un solo punto in meno rispetto a febbraio, mentre il senatore dell'Arizona sarebbe fermo alm 43%, ma con un + 2% rispetto al precedente sondaggio. Tra gli indecisi, il 48% tende più verso la Clinton, il 45% verso McCain.
In un'ipotetica sfida Obama-McCain, il senatore dell'Illinois totalizzerebbe il 44% contro il 43% di McCain, ma mentre Obama perde 4 punti rispetto a febbraio, McCain guadagna la stessa cifra (a febbraio era al 39%).
Tra gli indecisi (che in questo scenario sarebbero di più) i due candidati si equivalgono con il 45% delle preferenze, ma Obama perde 6 punti, mentre McCain ne guadagna 4.

Il sondaggio mette quindi in evidenza una situazione molto delicata all'interno dei Democratici: Obama continua a esercitare un appeal maggiore della Clinton nella sfida interna al partito, ma nelle ultime settimane la sua immagine si è appannata soprattutto nei confronti dell'elettorato cosiddetto "indipendente", termine che sta sostanzialmente ad indicare gli indecisi che non appartengono a nessuno dei due partiti (e che spesso non votano neppure) e sono poi coloro che di fatto decidono le elezioni. Il caso del Reverendo Wright e i veleni della campagna elettorale hanno scalfito l'immagine finora immacolata del senatore dell'Illinois, generando perplessità sul suo conto. Lo stesso non accade per la Clinton, che ha un'immagine che, pur non essendo particolarmente amata, sicuramente non può essere facilmente scalfita a causa della sua maggiore notorietà.
McCain beneficia di un mese di campagna elettorale in solitaria, e se già in precedenza era apprezzato dagli indipendenti, adesso consolida il suo appeal in questo segmento di elettorato, dato confermato da tutti i sondaggi di questi giorni (e quello di AP/Ipsos non è quello più benevolo verso McCain).
Qui potete scaricare il sondaggio completo.

venerdì 11 aprile 2008

Stallo a Denver?

di Mark Halperin (da TIME del 14 aprile)

L'immagine “http://markhalperin.files.wordpress.com/2008/04/timecoll.jpg” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.

Per i Democratici, questa è una primavera in svantaggio. Anche se il partito riuscirà a decidere la nomination a giugno, John McCain avrà già avuto tre mesi di vantaggio per organizzare la convention Repubblicana, assumere uno staff, raccogliere fondi e dare vita alla macchina organizzativa della campagna elettorale. Ma se la lotta per la nomination andrà avanti fino alla convention Democratica di agosto a Denver, potrebbe diventare un'estate di scompiglio. Alcuni Democratici hanno paura di quello che il manager della campagna di Obama, David Plouffe, chiama "uno scenario da incubo", in cui entrambi i candidati discuteranno con il partito a proposito di speaker, regole per i delegati, piattaforma del partito e l'argomento critico riguardo la tempistica del voto. Per un partito che ha già la reputazione di essere disorganizzato, vorrebbe dire il caos.

Invece di programmare una convention che sia una quattro giorni di incoronazione del nominato - la norma, nelle recenti elezioni - i Democratici potrebbero dar vita ad uno spot lungo una settimana sulle loro divisioni.
Anche se uno dei due candidati si ritirerà entro giugno, secondo Plouffe "il nominato non potrà certo crogiolarsi al sole. Hai 30 secondi per goderti la vittoria, poi devi cominciare a prepararti per le presidenziali" e secondo Plouffe "la partenza anticipata di McCain non sarà necessariamente fatale, è solo una sfida".

Leah Daughtry, capo dell'organizzazione della convention Democratica, ritiene che il partito avrà una nomination in tempo per una adeguata preparazione dell'evento (e, ancora più importante, per la trasmissione televisiva). Tuttavia, è consapevole che "non saremmo dei bravi organizzatori se non prendessimo in considerazione ogni scenario, dalla A alla Z"

Karl Rove spiega come vincere la convention / 1

Karl Rove, il discusso vice-capo dello staff di George Bush e suo principale consulente e stratega nelle campagne elettorali che lo hanno portato alla Casa Bianca per due mandati, ha spiegato a Newsweek quali sono le strategia che i due candidati Democratici dovrebbero adottare alla convention per ottenere la nomination se ancora l'esito delle primarie sarà in bilico. Vista la lunghezza dell'articolo e i molti temi affrontati, piuttosto che tagliarlo ho preferito presentarlo in più parti


Come vincere una sfida all'arma bianca

Dopo che si sarà tenuta l'ultima primaria Democratica a giugno, nè Hillary Clinton nè Barack Obama avranno un numero di delegati elettivi sufficiente per raggiungere la nomination. Obama dovrebbe conquistare il 76% e la Clinton il 98% dei 535 delegati ancora in palio. Non succederà.
Entrambi i candidati stanno freneticamente corteggiando i 330 superdelegati che decideranno la corsa. I sostenitori di Obama sottolineano che lui è in testa nel voto popolare e sostengono che i superdelegati devono rispettare il volere degli elettori (eccetto che negli stati in cui ha perso, ovviamente). Aggiungono che Obama sarebbe uno sfidante migliore della Clinton, che è piena di punti deboli e coalizzerebbe i repubblicani. I sostenitori della Clinton puntano sulle vittorie nei grandi stati e dicono che i superdelegati devono agire nell'interesse del partito. Dipingono Barack Obama come un candidato inesperto e dall'ego smisurato, che cadrà sotto i colpi della macchina propagandistica Repubblicana.

E' molto improbabile che i superdelegati indecisi si sbilancino prima di giugno, a meno che uno dei due candidati non infili una serie di convincenti e inattese vittorie. Si è parlato di "primarie di superdelegati" per decidere una posizione comune. Ma la Clinton punta ad allontanare il momento della decisione finale, perciò è ancora possibile che tutto si decida alla convention di Denver alla fine di agosto.
E' passato molto tempo dall'ultima convention in bilico. Perciò, basandomi sui 180 anni di storia delle convention presidenziali, mi permetto di suggerire alcune regole per vincere a Denver.

Regola #1: Controllare il meccanismo della convention. Se stabilisci le regole, decidi chi vota, organizzi gli eventi e controlli cosa viene detto, è quasi impossibile perdere. Perciò mentre Howard Dean è apparentemente al comando, i due candidati dovranno darsi da fare per controllare le leve della convention.
Tre comitati sono decisivi. Il Rules Committee è dove cominciano i problemi. Qualcuno si presenterà con una proposta allettante per cambiare qualche regola che darà ad uno dei candidato l'apparenza o il vantaggio di avere più delegati. Ci sarà un voto preliminare: di qualsiasi cosa si tratti è meglio vincere. Può anche essere qualcosa di poca importanza - l'elezione di un presidente temporaneo, ad esempio - ma è una prova di forza.
Il Credentials Committee è dove si decide la nomination. Stavolta le questioni riguardano Michigan e Florida. Le regole del partito dicono che i delegati di questi stati non possono partecipare perchè le primarie si sono tenute troppo presto. Se i Democratici non trovano una soluzione gradita sia alla Clinton che a Obama, il Credentials Committee diventerà una zona di guerra e i 44 grandi elettori dei due stati saranno a rischio.
E non dimentichiamo l'Arrangements Committee. Decidere dove siederanno i delegati, in quale hotel alloggeranno, quali pass avranno, può influenzare l'umore dei delegati. Amici? Un bell'hotel vicino al centro. Nemici? Che ne dite di quel motel vicino all'aeroporto?

Attenti a non esagerare, però. I perdenti non aspettano altro che fare le vittime. Nel 1912, il comportamento intransigente di Taft portò Theodore Roosevelt, che aveva perso la nomination, ad uscire dal partito e candidarsi come indipendente. Roosevelt perse, ma impedì la rielezione di Taft.

Regola #2: Attenzione alla piattaforma. Le piattaforme presidenziali un tempo erano la dichiarazione più importante di tutta la campagna. Adesso non più, ma possono ancora metterti nei guai con il tuo partito, o con il pubblico. Mettici al lavoro gli analisti più agguerriti, ma assicurati che siano affiancati da bravi negoziatori. Ci sarà bisogno di scendere a compromessi, a volte per placare gli animi, come fece Carter negoziando con Ted Kennedy nel 1980. Certi cambiamenti nel programma non faranno la differenza ma aiuteranno a guarire le ferite. Altre volte i nominati accettano di fare modifiche nelle loro posizioni perchè, pur avendo vinto la nomination, sono in minoranza su alcuni argomenti. E' quanto accadde a Gerald Ford nella convention del GOP nel 1976 a proposito di politica estera.
E a volte una battaglia sulla piattaforma è utile. Nel 1948, alla convention Democratica, i delegati del Sud ce l'avevano con Truman, che aveva la nomination in tasca. Allora il giovane sindaco di Minneapolis Hubert Humphrey ingaggiò una battaglia per far passare una norma sui diritti civili esclusa dalla piattaforma ufficiale. Vincendo la battaglia Humphrey diede ai delegati del Sud la scusa per sostenere Strom Thurmond, ma permise anche a Truman di conquistare tutti i voti del Nord e dei moderati che altrimenti avrebbero votato per Dewey. La piattaforma cambiò e modernizzò il partito Democratico conservando la lealtà del Sud per altri 16 anni.



© 2008 Newsweek, Inc.

giovedì 10 aprile 2008

Movimenti di superdelegati

La questione dei superdelegati continua ad agitare i Democratici. Dopo le frasi di Nancy Pelosi riguardo il fatto che i "pezzi grossi" non dovrebbero contraddire i risultati del voto popolare, il presidente del partito Howard Dean è intervenuto per ricordare che i superdelegati sono liberi di decidere per chi votare, ma intervenendo in tv ha ha detto che gli indecisi dovranno dichiarare il loro voto entro il 1 luglio. Lo scopo di Dean è quello di evitare una convention aperta alle contestazioni e ai ricorsi: avendo tutti i voti sul piatto alla fine di giugno, sarà (forse) possibile evitare che i voti di Florida e Michigan risultino decisivi e siano oggetto di ricorsi, e in questo modo i Democratici avranno due mesi per ricompattarsi in vista della convention.
Dean ha anche rimproverato la Clinton e Obama, ricordando loro il dovere di non dividere il partito "Qualcuno porà perdere la nomination pur avendo ottenuto il 49,8% di voti. Quella persona deve spingere i propri sostenitori a sostenere il nominato".

Il Los Angeles Times dedica invece un lungo articolo ai dubbi che agitano i superdelegati ancora indecisi. In particolare l'articolo si concentra non sui grossi nomi, ma sui parlamentari che a novembre si giocheranno la riconferma nelle elezioni legislative che si tengono contemporaneamente alle presidenziali. Questi Rappresentanti dovranno optare non tanto, e non solo, per il candidato con più chance di diventare Presidente, ma per quello maggiormente in grado di vincere nel loro stato.
Il LA Times cita il caso di Jason Altmire, Rappresentante della Pennsylvania al primo mandato. I suoi elettori molto probabilmente voteranno per la Clinton, ma una eventuale nomination della Clinton mobiliterà i conservatori della Pennsylvania, che la odiano, e questo metterà a repentaglio la rielezione di Altmire.
Lo stesso vale per Heath Shuler, anche lui al primo mandato in un distretto in cui Bush nel 2004 ha vinto con 14 punti di distacco. Anche lui ha paura che con una nomination della Clinton i conservatori trionferanno nel suo distretto.
D'altronde Obama è stato eletto dal National Journal come il senatore più liberale, e perciò anche lui rischia di coalizzare i conservatori.

Intanto il trend positivo di superdelegati in favore di Obama non accenna a fermarsi. Dagli ultimi conteggi della CNN Obama avrebbe raggiunto quota 215, mentre la Clinton è a 243. Tra i membri della Camera si è vicini ad un pareggio, con 80 Rappresentanti per la Clinton e 75 per Obama, mentre continua il pressing sugli indecisi. Lo stesso Altmire ha raccontato che Obama lo sta chiamando da un anno, mentre la Clinton lo ha chiamato tre volte nelle ultime settimane, e Bill Clinton altre due volte.
Cattive notizie per la Clinton arrivano anche dai suoi sostenitori. Il Governatore del New Jersey Jon Corzine, uno dei primi sostenitori della senatrice, ha detto alla CNBC che si riserva il diritto di cambiare il proprio voto se la Clinton non avrà ottenuto la maggioranza nel voto popolare, e la stessa posizione è stata espressa da altri superdelegati.

Tra gli indecisi più illustri, è arrivata a sorpresa una dichiarazione dell'ex Presidente Jimmy Carter (nella foto), che finora non si era mai espresso ma era dato tra i filo-Clinton. In visita in Nigeria, Carter ha detto

"Non dimentichiamoci che Obama ha vinto nel mio stato, la Georgia. La mia
cittadina, 625 anime, è per Obama. I miei figli e le loro mogli sono per Obama.
Anche i miei nipoti sono per Obama. In quanto superdelegato non dirò ancora per chi
intendo votare, ma vi lascio indovinare"

Previsioni per i mesi che verranno

di William Kristol (analista Repubblicano e columnist del New York Times)

Nelle ultime settimane ho passato molto tempo con esponenti conservatori di tutte le età e provenienze. Chiamatelo il mio personale tour di ascolto.
Cosa ho appreso? Che molti conservatori e Repubblicani si aspettano che Barack Obama sia il prossimo Presidente.
Molti di loro sperano che una lunga e aspra battaglia fra i Democratici indebolirà Obama, ma è una speranza che si dissolverà presto. Dopo i risultati in Pennsylvania, Indiana e North Carolina, sarà chiaro che Hillary Clinton non potrà rimontare nel voto popolare, e quindi non avrà nessuna possibilità di convincere i superdelegati a seguirla.
Quindi è probabile che si ritirerà a metà maggio. Si comporterà da perdente di classe (dovrà però nascondere Bill da qualche parte). Le settimane successive saranno una festa Democratica, e i soldi pioveranno sulla campagna di Obama.

La convention Democratica è prevista per l'ultima settimana di agosto. Poco prima Obama sceglierà il suo candidato alla vicepresidenza. Probabilmente sarà una persona di esperienza come Dick Gephardt, Sam Nunn o Tom Daschle, o un ex militare come Jack Reed - oppure Hillary Clinton. Poi la convention hollywoodiana sarà tutta concentrata su Speranza e Cambiamento, e funzionerà.
Nel frattempo la campagna di McCain arrancherà. La raccolta di fondi continuerà a languire, e il suo staff dovrà organizzare una convention in cui bisognerà celebrare Bush e Cheney, anche se McCain vuole voltare pagina.
Sarà un estate d'amore per Obama, e mesi grigi per McCain.
La rimonta di McCain potrebbe cominciare dopo il 4 settembrecon un forte discorso alla convention. Un'altra opportunità verrà dai dibattiti. Le aspettative per Obama saranno troppo alte, la gente si sarà dimenticata nel frattempo che non è bravo nei faccia a faccia quanto lo è nei comizi.

La questione fondamentale sarà però la discrepanza tra l'immagine di Obama come colui che unisce e la realtà di Obama il liberale. Finora non è stato un problema, perchè la Clinton non lo ha mai attaccato da destra o dal centro.
Ma i Repubblicani lo faranno. La scorsa settimana uno stratega Repubblicano non affiliato a McCain ha spiegato che la tattica vincente contro Obama sarebbe quella di produrre una serie di spot incentrati sul messaggio "Obama non è chi pensate che sia", su immagini del Reverendo Wright e dei suoi voti progressisti in Illinois e a Washington.

Chi vincerà? In politica, come nella vita, l'erba del vicino è sempre più verde. Molti Repubblicani vedono la debolezza di McCain e una vittoria di Obama. Ma un elevato numero di Democratici con cui ho parlato si apetta una vittoria di McCain.
Poi c'è il fatto che siamo in guerra. A novembre l'arma vincente di McCain potrebbe essere il famoso spot "3 A.M." della Clinton. E un importante esponente Democratico ha detto "Alla fine vincerà McCain. Obama non sta crescendo, prima pensavo che sarebbe stato un Jimmy Carter, adesso dopo la vicenda di Wright mi sembra Michael Dukakis. In più, non sa come comunicare con il ceto medio, ha la tipica 'malattia di Harvard' "
E in un testa a testa, è ciò che può fare la differenza.




Copyright 2008 The New York Times Company

mercoledì 9 aprile 2008

Quando Kennedy scelse Johnson come vice

di David Shribman (Pittsburgh Post-Gazette)


In questi mesi sono stati pubblicati due volumi chiamati "Avrei voluto essere lì", in cui è stato chiesto a ad alcuni illustri storici di scegliere un evento storico a cui avrebbero voluto assistere: tra gli americani, sono stati scelti il processo alle streghe di Salem, l'assassinio di Lincoln e la marcia su Selma; tra gli storici europei sono stati citati la battaglia del Nilo, la resa della Germania nel 1945 e la preparazione del quadro di Manet "Le Dejeuner sur l'herbe".

Se lo avessero chiesto a me, non avrei avuto dubbi su cosa rispondere.
In questa primavera in cui Hillary Rodham Clinton e Barack Obama si contendono la Pennsylvania, avri voluto essere nella stanza in cui un riluttante John F. Kennedy offriva ad un riluttante Lyndon B. Johnson la nomination a vicepresidente nel 1960.
La ragione è che, a differenza della battaglia del Nilo, non sappiamo nulla di ciò che accadde al Biltmore Hotel di Los Angeles nel luglio 1960. Ci sono tante versioni della storia quanti ne furono i partecipanti, e di persone coinvolte ce ne furono parecchie.
C'era JFK, il Democratico che aveva conseguito la nomination. C'era LBJ, che sarebbe succeduto a Kennedy tre anni e mezzo dopo. C'era Robert F. Kennedy, che sarebbe divenuto la bestia nera di Johnson e, prima di venire ucciso nel 1968, 40 anni fa il prossimo giugno, avrebbe cercato di mettere fine alla guerra che Johnson stava proseguendo. C'era Arthur Goldberg, il grande avvocato che Johnson avrebbe convinto a rinunciare a alla Corte Suprema per un ruolo privo di potere alla Nazioni Unite. C'era John Kenneth Galbraith, l'economista di Harvard che sarebbe diventato ambasciatore negli anni di Kennedy e un oppositore dell'amministrazione Johnson.

Theodore C. Sorensen, uno dei maggiori consiglieri di Kennedy, alla fine di giugno 1960 aveva preparato una lista di possibili vicepresidenti, e Johnson, leader della maggioranza al Senato, era il primo nome, perchè sarebbe stato utile per conquistare i voti "delle zone rurali, del Sud e del Texas".

Ted Kennedy ha raccontato: "Mio padre era fermamente convinto che Johnson fosse la persona giusta, e ricordo che John disse a m e Bobby 'Avreste mai pensato di vedere papà così entusiasta?'. Nostro padre aprì la strada all'idea che la scelta di Johnson era accettabile".

Johnson aveva i suoi detrattori tra i liberari e i leader sindacali, e lo staff di Kennedy aveva assicurato agli alleati nei sindacati che Johnson non sarebbe stato scelto, anche perchè - come aveva detto il leader del potente sindacato United Auto Workers "Ci eravamo uniti attorno a Kennedy proprio per fermare Johnson".

A volte i piccoli gesti sono quelli con le più grandi conseguenze. Tornando nell'appartamento che usava nei giorni della convention a Los Angeles, Kennedy scoprì che tra i telegrammi di congratulazioni, il più cordiale ed entusiasta era poprio quello di Johnson. "Da quel momento Kennedy cominciò a prendere in considerazione l'ipotesi che Johnson avesse cambiato idea rispetto alla sua posizione precedente, di non accettare in nessun caso il posto di vice" scrisse lo storico Theodore H. White.
Cominciarono le fitte telefonate tra i fratelli Kennedy e lo staff di Johnson, e uno dei momenti meno documentati della storia politica americana.
Nella furia del dibattito, pare che Bob Kennedy tentò di convincere Johnson a non accettare il ticket, un gesto che avrebbe spinto invece LBJ ad accettarlo e che avrebbe avuto gravi implicazioni per i loro futuri rapporti e per la politica americana negli anni a venire.


Cosa ha a che vedere tutto questo con le primarie in Pennsylvania e e la lotta per la nomination democratica del 2008? Dovreste chiederlo a Sorensen, che il prossimo mese compirà 80 anni e sta per pubblicare la sua autobiografia in cui racconta che quando Bob Kennedy fece presente le lamentele di liberali e sindacati, il fratello rispose che la scelta di Johnson non era scritta nella pietra. Questo spinse Bobby a fare visita a Johnson, una visita che fece sì che Johnson accettasse un premio che non era sicuro di volere.
"LBJ aveva attaccato JFK più duramente di chiunque altro, tuttavia Kennedy pensava che Johnson fosse l'uomo migliore per unificare il partito" ha detto Sorensen "Questa cosa potrebbe ripetersi. Non sarebbe sbagliato se Obama ragionasse in questo modo".
Sorensen sostiene Obama e ha anche raccolto soldi per lui, quindi a onor del vero lo scenario potrebbe presentarsi anche a parti invertite. Lo sapremo tra qualche settimana. Ma se succederà - come quando Ronald Reagan scelse George H.W. Bush nel 1980 o quando John Kerry scelse John Edwards nel 2004 - tra qualche anno molti di noi diranno: avrei voluto essere lì.



Copyright 2008, Pittsburgh Post-Gazette

Obama cammina sul confine dell'arroganza

di Ron Fournier (Associated Press)


L'arroganza è un vizio comune nelle politiche presidenziali. Bosgna avere più che una solida autostima per svegliarsi una mattina dire "la stanza ovale è il posto fatto per me".
Ma c'è un confine che i politici intelligenti non superano - un confine situato tra "Sono qualificato per fare il Presidente" e "Sono nato per fare il Presidente". Dovunque si trovi, Barack Obama dovrebbe stare attento a dove mette i piedi, perchè sta sconfinando nell'arroganza.

Il dizionario definisce questa parola come "un'offensiva dimostrazione di superiorità e orgoglio smisurato". Obama forse non è offensivo o smisurato, ma è un po' più sfacciato di quanto gli converrebbe.

Il senatore ha detto ai giornalisti lo scorso luglio, che avrebbe sconfitto Hillary Rodham Clinton perchè "conoscermi vuole dire amarmi". Qualche mese dopo ha detto "Ogni luogo è il paese di Barack Obama, una volta che Barack Obama è stato lì".
Certo, queste frasi sono state dette con una certa ironia - come se Obama non volesse prendere le folle adoranti troppo seriamente. Stava certamente scherzando quando a gennaio ha detto ai giornalisti che mentre parlava "una luce spunterà e vi illuminerà e vivrete un'epifania. E direte: devo votare per Barack".

Ma sia Obama che sua moglie Michelle sembrano sentirsi quasi degli eletti.
"Barack è una delle persone più intelligenti che vi capiterà mai di conoscere e che vorrà entrare in questa cosa sporca chiamata politica" ha detto sua moglie qualche settimanan fa.

In privato, collaboratori e associati di Obama parlano di un capo che sa essere distaccato e scontroso. Ha le sue posizioni e non ama essere contraddetto, caratteristiche che lo accomunano a Bush e che l'attuale presidente ha spacciato per "risolutezza" nell'ultima campagna elettorale. Per Bush queste caratteristiche si sono rivelate disastrose in guerra e dopo l'uragano Katrina.
Se l'arroganza è una dimostrazione di superiorità, Obama lo peggiora ogni volta che definisce la sua opposizione alla guerra in Iraq un atto di coraggio.

E' vero che merita rispetto per aver previsto le complicazioni della guerra già nel 2002, ma la sua posizione non era a rischio, visto che era un deputato poco conosciuto che intendeva corteggiare gli elettori liberali. Nel 2004, quando avere posizioni non allineate con il DNC poteva significare essere messi in disparte dal partito, Obama glissò sull'argomento.

Può darsi che abbia il giusto mix di umiltà e sicurezza per guidare la nazione (Obama dice spesso "Ogni giorno ricordo a me stesso che non sono perfetto") ma se il giovane senatore otterrà la nomination, anche la più piccola traccia di arroganza sarà oggetto di analisi epr quegli elettori che ancora non si fidano di lui.

Può sembrare ingiusto nei confronti di un candidato che corre contro la Clinton, ovvero la personificazione dell'orgoglio smisurato. Una donna che si vanta dell'esperienza da First Lady ma non pubblica i suoi diari della Casa Bianca, che è alle spalle di Obama ma gli offre la vicepresidenza, che è piena di scheletri nell'armadio e fa le pulci a Obama.
Ma gli elettori si aspettano arroganza dalla Clinton e da suo marito. Fa parte del pacchetto. Proviene da risultati e passione che Obama non può eguagliare.

Obama si è presentato come qualcosa di differenze, ha rifiutato la politica "me-centrica" promettendo una nuova era riformista, spiegando che il movimento che ha creato non riguarda lui ma ciò che gli americani possono fare insieme.

Il potere del suo messaggio sta nella sua umiltà. Come ha detto in un comizio lo scorso mese, davanti a 7.000 persone "Sono un contenitore imperfetto per i vostri sogni e le vostre speranze".


Nessuno si aspetta che Obama sia perfetto. Ma lui non deve dimenticarsi di non esserlo.

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martedì 8 aprile 2008

Gli anti-McCain sono a corto di soldi

Per cercare di non perdere ulteriormente terreno nei confronti di John McCain mentre Barack Obama e Hillary Clinton si contendono la nomination, i Democratici hanno pensato di mettere in piedi dei gruppi anti-McCain con lo scopo di denigrare l'immagine del Senatore dell'Arizona. Il tentativo, a quanto pare, è però naufragato prima ancora di cominciare a causa della mancanza di fondi. Il nominatio-in pectore dei Repubblicani può così continuare a fare campagna elettorale indisturbato, mentre tra i Democratici volano accuse.

Nonostante la Clinton e Obama abbiano raccolto, e stiano tuttora raccogliendo, un altissimo numero di fondi, ben superiori a quelli di McCain, sia la campagna anti-McCain del gruppo Fund for America, sia quella del DNC si sono rivelate subito un flop, senza speranze di poter arrivare fino a novembre.
"Molte persone che normalmente sarebbero coinvolte in questi sforzi sono ancora concentrate sulle primarie, e questo è un errore" spiega Michael Vachon, portavoce del miliardario George Soros, il principale finanziatore di Fund for America. "Sappiamo che avremo comunque vada un buon candidato Democratico. Adesso bisogna rivolgere la nostra attenzione a McCain."

Fund For America è nato all'indomani delle elezioni del 2004, quando alcuni grandi donatori Democratici si sono detti stanchi di investire soldi in organizzazioni ad hoc che regolarmente chiudevano dopo il voto. Già da gennaio i finanziatori parlavano di una spada di Damocle che si sarebbe abbattuta su McCain non appena avesse conquistato la nomination, seguendo la strategia per cui bisogna attaccare subito l'avversario, prima che abbia il tempo di conquistare consensi.
Il 5 marzo, il gruppo ha finanziato uno spot intitolato "McSame, in cui si mette in evidenza la continuità tra McCain e Bush. Lo spot non ha però avuto seguiti per mancanza di fondi.

Intanto, McCain per essere stato definito "guerrafondaio" da uno speaker di una convention democratica a favore di Obama, senza che il candidato Democratico si dissociasse. "Spero che il Senatore Obama condanni questo linguaggio, visto che proviene dai suoi sostenitori" ha detto McCain, ricordando di essersi dissociato quando i suoi supporter avevano attaccato Obama.

Lo stratega della Clinton esce di scena

di Mark Halperin (TIME)


Mark Penn, lo stratega con il controllo quasi totale sulla campagna elettorale della Clinton sin dall'inizio, è stato spinto a dimettersi, come annunciato domenica sera.
Il sorprendente annuncio è arrivato dopo la scoperta che Penn, nella veste di amministratore delegato della lobby Burson-Marsteller, aveva intrattenuto discussioni con personalità di spicco della Colombia a proposito di un accordo bilaterale di libero commercio, avversato dalla Clinton.

Durante la campagna per le primarie in Ohio, la Clinton aveva attaccato Barack Obama per quella che aveva definito una "tacita collusione" con il Canada a proposito del NAFTA, un altro controverso trattato commerciale che lei ha detto di voler riformare.
Penn ha rappresentato una figura controversa nel corso di tutta la campagna, si è alienato le simpatie dei colleghi con i suoi metodi bruschi ed enfatizzando una strategia basata sulla durezza, sull'esperienza e sull'eleggibilità della Clinton, in un momento in cui gli analisti di entrambi i partiti sostengono che gli elettori cerchino il cambiamento.
Anche se il comunicato stampa della Clinon lascia intendere che Penn continuerà ad essere consigliere, è impossibile negare che questo evento rappresenta un cambiamento enorme nella campagna elettorale. Penn ha avuto una autonomia pressochè totale nel prendere le decisioni importanti su cosa la candidata doveva dire, dove doveva andare, cosa comunicare. Anche se molti collaboratori della Clinton diffidavano di lui, Penn è sempre stato un uomo di fiducia di Bill e Hillary, tanto da sopravvivere ad un momento difficile all'indomani del voto in Iowa, quando la Clinton arrivò solo terza. Adesso però ha dovuto cedere a forti pressioni.

Il ruolo di Penn se lo spartiranno il sondaggista Geoff Garin e il direttore della comunicazione dello staff della Clintonm Howard Wolfson.

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lunedì 7 aprile 2008

Mark Penn costretto a dimettersi

Anche se il suo nome non è di quelli che si sentono più spesso in questa campagna elettorale, Mark Penn è senza dubbio la personalità più influente (e controversa) alle spalle di Hillary Clinton. E' il suo principale consigliere e lo stratega della campagna elettorale, l'ideatore di tutte le tattiche che hanno fatto restare la senatrice ancora in corsa, e il principale teorico del "non ritirarsi". Odiato da tutti gli altri componenti dello staff (comprese le due manager della campagna, che si sono alternate finora), Penn non era mai stato messo in discussione. Ma ora l'ha fatta davvero grossa e si è dovuto dimettere quest'oggi.

Questa la cronaca. La scorsa settimana, i giornali hanno riportato la notizia di un incontro di Penn con l'ambasciatore della Colombia per discutere i termini di un accordo commerciale. Un accordo commerciale che però è stato fortemente avversato dalla Clinton nel corso di questa campagna elettorale.
Sono state immediata le reazioni, soprattutto da parte dei sindacati che appoggiano Obama, e che avversano profondamente gli attuali trattati commerciali approvati dall'amministrazione Bush. Jim Hoffa, presidente di Teamsters, ha chiesto per primo le dimissioni di Penn e ha messo in discussione la credibilità di Hillary Clinton sul tema dei trattati di commercio. "Come possiamo credere che, da Presidente, Hillary Clinton si opporrà a questo accordo quando il suo principale consigliere è stato pagato dalla Colombia per sostenerlo?".

Il Wall Street Journal ha poi riportato che, prima del meeting, Penn si era incontrato con un rappresentante di una lobby per accordarsi sul passaggio al Congresso di un trattato sul libero commercio che Bush presenterà la prossima settimana e che è avversato sia da Obama che dalla Clinton.
Mark Penn si è scusato sostenendo che l'incontro con l'ambasciatore colombiano è stato "un errore di giudizio". Lo staff della Clinton ha spiegato che Penn ha partecipato all'incontro per incarico della lobby a cui appartiene e non come rappresentante della campagna elettorale.

La spiegazione non è però servita a mascherare la profonda irritazione dei Clinton. Il NY Times descrive Hillary "furiosa" con Penn, che sarebbe stato costretto a dimettersi, anche se in molti contestano il fatto che ci siano voluti diversi giorni perchè questo accadesse.
Il ruolo di "chief strategist" della campagna della Clinton passa a Geoff Garin e Howard Wolfson, che attualmente ricoprivano il ruolo di portavoce.

Chi metterà fine alla sofferenza?

di John Heilemann (New York Magazine)
Nei giorni successivi al ritiro di John Edwards dalle primarie, il mondo politico si aspettava un suo endorsement per Barack Obama come logica conseguenza. Il candidato neo-populista aveva passato i mesi precedenti ad etichettare la Clinton come la rappresentazione dello status quo, e ad accusarla in pratica di corruzione per la difesa dei lobbysti e delle grandi industrie. Inoltre c'erano questioni di famiglia: "Elizabeth Edwards non ha mai sopportato la Clinton" ha confessato un membro dello staff.

Ma adesso sono passati due mesi dal ritiro di Edwards, e ancora non c'è stato nessun endorsement. Perchè? Secondo uno stratega Democratico indipendente la risposta è semplice: Obama lo ha snobbato. Il giorno dopo il ritiro di Edwards, Obama andò a parlargli in privato. Le sue risposte alla richiesta di Edwards di rendere centrale nel suo programma il tema della povertà sono state svogliate, superficiali e di circostanza. Al contrario la Clinton ha affrontato con Edwards una lunga discussione. Dieci giorni dopo, i due si sono incontrati in North Carolina e la Clinton ha dimostrato vero interesse ed ha anche fatto progressi con Elizabeth. Nel frattempo Obama ha di nuovo sbagliato discutendo proprio con Elizabeth a proposito di sanità, criticando il piano della Clinton (che era stato approvato da Edwards).

Questa storia ha due implicazioni significanti. La prima è che il front-runner Democratico deve raffinare le sue capacità diplomatiche e la sua capacità di chiudere un accordo. La seconda è ancora più importante: visto il trend autodistruttivo di questa campagna, chi può mettere fine a questa sofferenza? Come si può impedire alla Clinton di far passare al suo partito tre mesi di sofferenza? Dove sono i famosi "vecchi" del partito in grado di convincerla che è il momento dei saluti?
Finora gli appelli perchè la Clinton si ritiri sono arrivati principalmente dai sostenitori di Obama, che hanno la logica dalla loro parte: se è praticamente (anche se non matematicamente) impossibile per la Clinton vincere tra i delegati elettivi e nel voto popolare, allora qual è lo scopo di questo spargimento di sangue?
Ma il desiderio che un deus ex machina risolva la situazione presenta molti problemi, a partire dal fatto che non ci sono molte divinità Democratiche a disposizione, e quelle poche sono inclini a rimanere neutrali almeno fino alla fine delle primarie.

Nonostante i rapporti non certo idilliaci tra Al Gore e Hillary, Gore ha resistito alla tentazione di supportare Obama, e proprio a causa dei loro rapporti, se anche Gore lo facesse, questo avrebbe pochi effetti sulle decisioni della senatrice. Edwards, che in un primo momento aveva parlato con Gore della possibilità di un endorsement congiunto, ora sembra propenso a rimanere neutrale, se non addirittura ad appoggiare la Clinton. Jimmy Carter ha detto inequivocabilmente di voler rimandare la decisione.

A questo punto i Democratici più influenti sono la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il leader della maggioranza al Senato Harry Reid. Ma le posizioni della Pelosi riguardo i superdelegati hanno messo in dubbio la sua neutralità, e quindi le possibilità di influire sulla Clinton.


Secondo gli assistenti della Clinton, le persone che potrebbero maggiormente influire sulle decisioni di Hillary non sono i "grandi vecchi", ma le persone a lei più leali: Terry McAuliffe, Vernon Jordan, Rahm Emanuel (l'unica persona del club ad essere anche vicina ad Obama). Inoltre ci sono il Governatore della Pennsylvania Ed Rendell e l'afro-americana Stephanie Tubb-Jones "Se la Tubb-Jones le consigliasse di ritirarsi, avrebbe una grande influenza" ha detto un collaboratore della Clinton.
E non dimentichiamoci di Bill.
Per il momento nessuna di queste persone le ha suggerito di farsi da parte. Non sono idioti nè ciechi, sanno leggere e fare di conto, ma credono che anche se la strada è impervia, una scia di vittorie in Pennsylvania, North Carolina e Indiana possa rimettere tutto in gioco, specialmente con i superdelegati. Oppure che la candidatura di Obama può saltare in aria in modo spettacolare.

La domanda è se uno di questi consiglieri intercederà con la Clinton se aumenteranno i veleni nella campagna. La mia opinione personale è che, alla lunga, gli attacchi della Clinton hanno rafforzato Obama piuttosto che danneggiarlo. Lo hanno forgiato, messo alla prova per quello che lo attende.
Alcuni dei membri dello staff della Clinton non rimarranno inermi se a giugno Obama sarà ancora in testa. Per quanto fedeli, non vogliono avere niente a che fare con un'operazione mirata a distruggere il rivale, a qualsiasi costo. Ma sono le stesse persone profondamente convinte che Obama non abbia chance contro McCain, ed è il motivo principale per cui la Clinton va avanti.

Tuttavia, per ironia della sorte, questa valutazione potrebbe essere anche la causa di un inatteso ritiro della Clinton entro giugno - come ha suggerito l'ex manager della campagna di Walter Mondale, Bob Beckel - per accettare la candidatura a vicepresidente. Perchè se la Clinton è convinta che Obama perderà contro McCain, vuol dire che sta valutando la sua posizione per le presidenziali del 2012, e una campagna all'ultimo sangue contro Obama non è il modo migliore per arrivarci. Un'uscita di classe la metterebbe invece in una posizione di forza.

Ecco l'ultima speranza dei "grandi vecchi" del partito, perchè in definitiva l'unica persona a cui Hillary Clinton darà retta è proprio Hillary Clinton.

©MMVIII, New York Magazine. Illustration by Darrow

domenica 6 aprile 2008

Richardson: decidono gli elettori, non i pezzi grossi

Dopo essersi ritirato dalle primarie, Bill Richardson è rimasto per diverse settimane lontano dai riflettori e dalle polemiche.

Quando è tornato, ha portato con sè il pesante endorsement per Obama, e altre due novità: una folta barba che gli dà un'aria più seriosa e che incute rispetto, e un piglio battagliero e presenzialista che lo ha portato a svariare in tutti i talk show per spiegare i motivi del suo inatteso appoggio. A "Face the Nation" sulla CBS, Richardson ha risposto a chi lo accusava di slealtà nei confronti dei Clinton. "Tra l'amore per i Clinton e quello per il mio paese, ho scelto il secondo" ha spiegato e, rispondendo alle pesanti accuse di James Carville, che lo ha paragonato a Giuda, ha criticato il "veleno personale" di certi consiglieri della Clinton "che si comportano come se la presidenza fosse una loro proprietà personale".
"Devo molto ai Clinton" ha spiegato "ho servito nell'amministrazione Clinton e sono stato leale al Presidente, ma questo non vuol dire che per il resto della mia vita dovrò seguire tutto ciò che fanno. E infatti io correvo contro la Clinton, quando mi sono candidato alla presidenza".
Poi ha affrontato lo scottante tema dei superdelegati, definendo "interessante" l'ipotesi di una convention dei superdelegati per decidere la posizione da prendere, dopo la fine delle primarie, ma a patto che non si annulli la scelta fatta dagli elettori.
"Quello che bisogna evitare è che siano i pezzi grossi del partito, i superdelegati, a decidere la nomination. Questa è una cosa che tocca agli elettori. Ma forse può succedere che alcuni leader come il Dean, Nancy Pelosi, Al Gore, John Edwards, trovino il modo per far sì che i superdelegati discutano e si accordino per evitare una convention sanguinosa che ci indebolirebbe".

Il giorno dopo, Richardson ha scritto un editoriale per il Washington Post, intitolato "Lealtà al mio paese", in cui tra le altre cose ha affermato

"Il mio recente endorsement per Barack Obama è stato oggetto di discussioni e polemiche. Guidati dal commentatore James Carville, che fa della provocazione una ragione di vita, i supporter della Clinton hanno speculato sui motivi del mio appoggio, arrivando agli insulti.
Certamente non mi abbasserò al livello di Carville, ma mi sento obbligato a difendermi da queste accuse insensate.
Ho ripetutamente chiesto ai Democratici di evitare gli attacchi personali, e persino presentato una risoluzione che impegnasse tutti a fare campagna sugli argomenti importanti. Questa campagna è stata troppo negativa, e noi Democratici dobbiamo calmare la retorica degli attacchi e unirci per sconfiggere i Repubblicani.
Ho appoggiato il Senatore Obama perchè credo che abbia il giudizio, il temperamento e il carattere per colmare queste divisioni.
E' stata una decisione sofferta e dolorosa. Il mio affetto per il Presidente Clinton rimane immutato, per la straordinaria opportunità che mi ha dato per servire lui e il paese. E nessuno più di me ha lavorato più duramente e lo ha servito più lealmente, anche nei momenti più difficili.
Ho contemplato seriamente l'ipotesi di appoggiare Hillary Clinton, ma non ho mai detto a nessuno che lo avrei fatto. Chi lo dice è disinformato o peggio.
Non credo che la verità impedirà a Carville e a quelli come lui di attaccarmi. Posso solo dire che dobbiamo lasciarci alle spalle gli insulti. Quell'epoca è passata e per me Obama rappresenta la migliore speranza di sostituire le divisioni con l'unità".

Infine, due giorni fa, alcune fonti hanno riportato al Time che Richardson avrebbe parlato con i Clinton ammettendo che "Obama non può vincere".
Immediata la replica dello staff del Governatore del New Mexico.
"Il Governatore Richardson non ha mai messo in discussione l'eleggibilità del senatore Obama. Crede che Barack Obama sia la persona giusta per guidare il paese e che sarà il prossimo Presidente. Il Governatore vuole superare la fase nonsense dei 'si dice'. E' irrilevante e stupida. Bisogna concentrarsi sulla guerra in Iraq, sull'economia e sulle politiche sanitarie, che è esattamente quello di cui parla Obama".